Le diafanie di Cristiana Fioretti

Francesco Murano

Dal catalogo “Maria Cristiana Fioretti  Light Abstr-action”, pp. 27-28, Ed. Gabriele Mazzotta, Siena, 2010

Il termine “diafano” è comunemente impiegato nel significato di trasparente, ma anche di limpido e di chiaro, e, se riferito a persona, prende il contenuto di pallido, di slavato, di esangue. Nella parola “diafano” coesistono dunque la materia e la luce, e il termine è indicativo di un che di trasparente e nel contempo luminoso.
Questa duplice accezione deriva dall’etimologia della parola che mutua dal greco dia il significato di trasparente e dall’ellenico faino la locuzione “faccio risplendere”. Perciò “diafano” è precisamente riferibile a una materia che lascia trasparire la luce; per questo motivo il gesuita e scienziato evoluzionista Teilhard de Chardin definisce “diafanica” la Parola divina: essa infatti rivela la potenza di Dio.
Più prosaicamente, sempre dal termine “diafano” deriva la parola “diafanoscopio” che indica lo schermo luminoso utilizzato per la lettura delle lastre radiologiche. Attraverso la luce dei diafanoscopi è possibile visualizzare la natura nascosta del corpo umano che per mezzo della luce rivela in negativo la caducità strutturale della nostra esistenza.
I diafanoscopi illuminano delle immagini e costituiscono quindi un dispositivo che permette di osservare una figura rendendo manifesta la presenza della luce. Poiché le lastre radiografiche mostrano in trasparenza la luce che le illumina, è possibile intuire la qualità immacolata che la luce uniforme emana dallo schermo prima di incontrare le tracce grafiche del nostro corpo. La riduzione della luminosità dello schermo è dunque provocata dalla contaminazione dell’immagine della nostra fisicità, e anzi l’indagine scientifica di tale fisicità finisce ovviamente per prevalere sulla contemplazione della luce che la materializza.
La luce viene utilizzata per veicolare delle immagini e svolge quindi una funzione strumentale alle immagini stesse così come accade negli schermi televisivi e in quelli dei computer. L’evoluzione tecnologica di tali dispositivi tende a una sostanziale riduzione del loro spessore, favorita dai nuovi sistemi di produzione delle sorgenti microfluorescenti, dei plasma, dei LED, degli OLED e degli schermi elettroluminescenti; identica però rimane la natura strumentale della loro funzione luminosa. L’aumentata potenza delle nuove sorgenti favorisce poi l’utilizzo di schermi luminosi impiegati come apparecchi di illuminazione d’interni, e ciò costituisce, in questo settore, una indubbia novità di carattere formale. Infatti gli apparecchi di illuminazione avevano, e hanno ancora in genere, la forma di scatole contenenti ampolle che emettono luce.
Un apparecchio luminoso di questo tipo può essere anche visivamente distinto nei tre principali sistemi che lo compongono: il sistema della struttura fisica, il sistema elettrico e quello ottico. L’appiattimento e l’integrazione reciproca di questi sistemi portano invece alla realizzazione di sorgenti che sono visivamente percepite come un unicum emissivo, lastre di luce nelle quali la parte elettrica, quella strutturale e quella ottica si uniscono e si fondono per dare forza a un particolare tipo di luce: la luce planare. E la luce planare a sua volta si integra con i piani dell’architettura.
La luce giunge addirittura a sostituire le partizioni dello spazio: muri splendenti ed evanescenti delimitano ambienti totalmente invasi dalla luce. La luce non illumina più lo spazio; la luce è lo spazio e in esso l’uomo appare inglobato, la sua presenza fisica esalta la l’immaterialità della luce che pervade gli ambienti. I lumi sono polverizzati, la luce senza direzione si identifica con l’atmosfera artificiale degli ambienti interni, resa luminosa e pervasiva come quella naturale. La luce si manifesta in tutta la sua potenza e immaterialità, non illumina il reale, lo abbraccia e lo integra in una osmotica ricerca di perfezione. Ecco che allora il significato del termine “diafano” appare chiaro: la materia, il reale esaltano per trasparenza la luce, ed è il reale che si pone al servizio della luce, l’architettura stessa viene concepita in sua funzione così come mostrano le architetture luministiche di Tadao Ando e di Peter Zumthor.
Il reale “sub specie lucis” è anche l’oggetto della ricerca di Maria Cristiana Fioretti che utilizza per le sue opere pannelli elettroluminescenti. Questo tipo di sorgente, costituita da sottili strati di fosforo deposti su layer sottilissimi e capaci di produrre una luce perfettamente uniforme, è tra le più sottili, flessibili e immateriali sorgenti di luce planare oggi utilizzabili.
Il colore e i segni sovrapposti da Cristiana ai pannelli enfatizzano le qualità emissive di questi fogli di luce. I fogli, velati di colore e di segni, sono stretti tra lastre di materiale acrilico che ne esaltano la sottigliezza e ne preservano l’esistenza. Il colore non è più “sofferenza della luce nella materia”, ma strumento e metodo per una raffinata ricerca luministica, realizzata non attraverso l’analisi scientifica delle prestazioni ma con l’indagine artistica delle loro potenzialità. Ecco perché le opere di Maria ristiana Fioretti sono delle “diafanie”: in esse la materia, il colore e le cifre ci avvicinano, per trasparenza, alle qualità divine della luce.